I piccoli luoghi sono una fonte inesauribile di informazioni. La settimana scorsa vi ho raccontato della strana lapide mortuaria di un falegname, posta all’ingresso della chiesa parrocchiale di Montagne, in val Rendena, Trentino.
Nello stesso paese, accanto a quella misteriosa iscrizione c’era dell’altro, forse ancora più interessante: i nomi dei caduti delle due guerre mondiali, affiancati in una cappella orientata verso Mezzogiorno.
In quei due semplici elenchi era riassunto tutto l’infausto secolo breve. Innanzitutto il numero dei Caduti. Venticinque nella Grande guerra e sei soltanto nella Seconda guerra mondiale, e nulla sembrava spiegare meglio di quella lapide che la vera mattanza (per i militari più che per i civili) era stata la prima, su entrambi i fronti. Ma nei caduti della seconda vi era egualmente qualcosa di angosciante, la prevalenza dei dispersi sui morti con una loro tomba. Quattro contro due.
Il segno che quegli uomini erano scomparsi, inghiottiti dal nulla, dispersi nella pioggia e nella neve, e nessuno era riuscito a ritrovarli.
Il terzo e forse più interessante elemento era l’omissione della diversa bandiera sotto la quale quei poveretti avevano militato nei due conflitti. Non stava scritto da nessuna parte, forse col pretesto di non fare differenze fra i morti. Per un villeggiante di Roma o Milano quella diversità non dichiarata non era affatto intuibile. I nomi e i cognomi dei Caduti erano infatti tutti italiani. L’unica differenza con un analogo monumento in Piemonte o in Abruzzo stava negli anni.
Sulla lastra di marmo era scritto 1914-1918 e non 1915-18. Per l’Austria-Ungheria la guerra era iniziata un anno prima, dopo l’attentato di Sarajevo. Era quello l’unico indizio.
Per me che venivo da Trieste, rimasta austriaca fino al ’18, era naturale sapere che i trentini della Grande Guerra avevano combattuto per l’imperatore di Vienna e che dall’Ortles fino all’altopiano di Asiago e all’Isonzo essi erano tra i pochi soli capaci di capire la lingua dei loro nemici nelle trincee contrapposte.
Per questo l’omissione mi era apparsa particolarmente fastidiosa, quasi fosse ancora impossibile oggi – come al tempo del fascismo – ammettere che le nazioni potessero estendersi anche oltre il loro spartiacque di competenza.
Come faccio a spiegare a un bergamasco o un siciliano che mio nonno, italianissimo, ha combattuto per l’Austria in quanto triestino, e ancora di più come faccio a fargli capire che il fratello di lui, irredentista convinto, è passato negli stessi anni dalla parte italiana? La complessità delle nostre frontiere non è più percepita e forse non lo è mai stata.
Così la verità sul nostro passato viene omessa. Perché a Trieste non vi è un monumento ai Caduti triestini sotto bandiera austriaca? Perché non si parla delle nostre medaglie d’oro conquistate sui Carpazi sul fronte russo? Servirono o no il loro Paese?
Nei nomi delle nostre strade e nei nostri monumenti imperversa una disonesta retorica che mente con spudoratezza sul passato. Un nome su tutti: Cadorna, il generale in capo colpevole del. la ignominiosa disfatta di Caporetto, esponente riconosciuto del più atroce sadismo mistico nei confronti dei suoi soldati, uomo che ha mandato a morte migliaia di italiani per ingiuste fucilazioni. Perché gli è stata dedicata una strada? Che senso ha ricordare un uomo simile, solo perché italiano?